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antico egitto: le abitazioni

I nobili vivevano in case molto spaziose, con terrazzi abbastanza grandi e giardini per fare grandi banchetti. Ciò era dovuto all’esigenza di alloggiare, oltre alla famiglia, anche un gran numero di persone da essa dipendenti. Erano quindi edifici di ampie dimensioni che componevano delle unità quasi autosufficienti. In un primo tempo gli ambienti erano distribuiti in modo casuale, senza ordine, mentre in una fase successiva vi fu una distribuzione più coerente e razionale. Nelle ville, che erano le abitazioni della classe dominante, vi era una distribuzione geometrica ed una organizzazione degli spazi basata su criteri di funzionalità: una parte dell’edificio era riservata alla vita intima, un’altra adibita a luogo di rappresentanza ed altri spazi destinati a funzioni accessorie. La casa di un grande funzionario o di un nobile aveva le pareti costruite con mattoni di fango che venivano dipinte talvolta a colori vivaci. Sebbene le case fossero costruite in mattoni crudi, i particolari del loro interno erano realizzati con altri materiali. Gli stipiti di porte e finestre, le spagnolette e i cardini erano di legno. La porta d’entrata dei nobili era ornata di bassorilievi simili a quelli che si trovavano sui templi. Appena varcata la porta d’ingresso, ci si trovava in un’ampia corte di forma rettangolare che per mezzo di due muri, era suddivisa in tre piccole corti d’uguali dimensioni. Ai lati di ciascuna corte si aprivano i vari locali della casa. La casa tipo di un funzionario era a più piani: il piano terra era destinato alle attività commerciali, il primo piano veniva utilizzato per il ricevimento degli ospiti mentre il secondo piano era occupato dalle camere da letto. Generalmente nei piani alti si trovavano le stanze della servitù. Sul pavimento c’erano larghe piastrelle dipinte con colori allegri. C’era una sala centrale di rappresentanza per ricevere gli amici le cui colonne erano spesso colorate di rosso o di rosa. Nelle pareti venivano disegnati fiori e frutti. C’era anche una stanza da bagno con pareti, pavimenti e lavabo in pietra. Gli ospiti accedevano alla villa attraverso un atrio e un vestibolo ed entravano nella grande sala di ricevimento dalle colonne dipinte. Il pavimento e il soffitto potevano essere dipinti con colori allegri. In generale l’arredamento della casa egiziana era molto confortevole: panche, stuoie e letti in vimini con poggiatesta ma solo per i più ricchi. Normalmente i mobili delle case dei ricchi riproducevano forme di animali come il leone, il toro, che avevano un valore sacro, o colli d’anatra e corpi di gazzelle. Vi erano poi cofani che servivano a riporre oggetti per uso personale domestico Le coperture erano per lo più piane e si raggiungevano con delle scale e proprio su tali coperture si svolgeva gran parte della vita degli abitanti. La terrazza sul tetto era fresca, spaziosa e anche tranquilla. Sul retro della villa c’erano dei silos: i granai, dove poter deporre il grano raccolto. Vicino a uno stagno crescevano molto in fretta fiori e piante. Uno degli alberi più apprezzati per il legno e l’ombra era la persea. C’erano anche stoviglie in terracotta fatte dagli artigiani che venivano vendute in città. Il retro della casa era riservato alla vita domestica: tra i locali destinati ai padroni quali stanze da letto, stanze da bagno e toeletta, c’erano anche i quartieri delle donne con, a volte, una saletta privata che solo le donne potevano frequentare. All’esterno della villa, vicino al muro del giardino, si trovavano le cucine, che portavano alle cantine sotterranee. Dalle cucine si accedeva alla stanza del forno, ai magazzini, alla dispensa, alle stanze della servitù. Sul cortile posteriore si aprivano le stalle, l’officina e il recinto delle oche. I silos dove veniva posto il grano erano nel cortile laterale che serviva anche da ingresso per i fornitori. La cisterna era in un angolo del giardino: una scala permetteva ai servi di raggiungere il livello dell’acqua. Le case della classe operaia erano costruite in mattoni ed intonacate con dipinti dai colori vivaci, erano composte da tre vani, in un solo piano, addossate le une alle altre, divise in file da strade, riempivano un’area rettangolare o quadrata all’interno di un muro cieco che delimitava il quartiere. Queste abitazioni non avevano un cortile interno da cui prendere luce, ma avevano delle finestrelle ubicate sulla copertura piana, che consentivano di illuminare i locali sottostanti. Le case del ceto medio erano di aspetto festoso per forma e colore e si aprivano sulla pubblica via mediante una porta che dava accesso ad un cortile centrale sul quale si affacciavano tutti gli altri locali. L’abitazione era spaziosa e qualche volta costruita su due piani. Sul fondo del cortile erano collocate le camere da letto e il soggiorno, che erano gli ambienti più spaziosi. Appoggiati al muro di cinta si trovavano invece i piccoli vani accessori: latrine, granai, cucine e dispense. La povera gente viveva in condizioni davvero miserabili, in capanne, divise una dall’altra da sentieri tortuosi interrotti da stagni dove veniva attinta l’acqua. Lì vicino, in un terreno incolto, venivano depositati tutti i rifiuti e le immondizie. Queste capanne erano costruite con terra o mattoni crudi rivestiti con intonaco di fango. Le più povere avevano una stanza sola o due stanze piccolissime; il tetto era di foglie di palma e così basso che un uomo di altezza media doveva stare attento a non sfondarlo con la testa. I poveri non chiudevano mai la porta perché non c’era niente da rubare; non c’erano sedie né letti ma solo qualche sgabello, un paio di casse dove era raccolta la biancheria, stuoie di giunco o di filamenti di palma che venivano utilizzati come letto e che avevano gli orli guarniti di punte per tenere lontani i temibili scorpioni. La sala da pranzo e la cucina erano un’unica stanza e vi si trovavano delle pietre piatte che servivano per schiacciare il frumento, una madia per il grano, l’olio ecc., una dozzina di vasi, scodelle. Appoggiato al muro c’era il focolare alla sommità del quale c’era un buco nel tetto per il fumo. Accendere il fuoco era un’impresa perché bisognava sfregare due schegge di selce finché una scintilla non accendeva delle foglie secche; per questo motivo si faceva di tutto per tenerlo acceso e si spegneva solo per la ricorrenza dei morti o se moriva qualcuno. Nelle case più povere c’erano mensole, scaffali ed armadi scavati nei muri o fatti con giunco e tessuto dallo stesso abitante della casa Nella capanna la divinità aveva il suo posto perché aveva il compito di tenere lontani gli spiriti maligni. Nelle ore buie per illuminare l’abitazione venivano utilizzate ciotole di ceramica riempite di olio su cui galleggiava uno stoppino in fibra vegetale. Per vedere di notte o al buio, si servivano di lampade a olio e di torce. Per riscaldarsi in casa durante le fredde notti dell’inverno ricorrevano a caminetti nei quali bruciavano carbone vegetale. Il carbone vegetale si faceva in carbonaie particolari. Esse consistevano in pozzi scavati nella terra. Al centro del pozzo veniva messa un’asta che andava dalla superficie al fondo. Intorno all’asta venivano accuratamente disposti rami intrecciati, sì da non lasciare alcuno spazio all’aria. Il tutto veniva ricoperto con erbe, giunchi e con uno strato di terra. Quando l’asta veniva estratta, attraverso il foro lasciato da questa si introduceva il carbone ardente. Una volta iniziata la combustione, si tappava il foro con della terra. Il catrame e l’acqua fuoriuscivano all’esterno, e la legna si trasformava in carbone.